L’antigene prostatico specifico (PSA) è una proteina prodotta dalla prostata che si trova nello sperma e anche nel sangue, la cui concentrazione in genere aumenta in presenza di cancro della prostata. L’utilizzo esteso, negli anni passati, del dosaggio del PSA come screening precoce ha aumentato il numero di diagnosi di cancro della prostata, ma non sempre e non necessariamente questo si è tradotto in un beneficio per il paziente. Il PSA infatti non è un marcatore specifico di malattia tumorale: aumenta fisiologicamente con l’età e in presenza dell’ipertrofia prostatica benigna, e anche altre condizioni, come infezioni alle vie urinarie, prostatite, attività sessuale recente o intensa attività sportiva, possono innalzarne i livelli. A questo si aggiunge il fatto che non esistono valori di riferimento che aiutino a determinare con certezza la presenza di un tumore, anche se, come ricorda l’American Cancer Society, in caso di livelli superiori ai 4 ng/ml di sangue, il rischio di avere un cancro è circa del 25 per cento. D’altro canto la neoplasia può essere presente anche se i livelli di PSA non risultano alterati. Oltre a non essere un marcatore tumorale specifico, l’utilizzo indiscriminato del dosaggio del PSA rischia di portare a diagnosi e trattamenti in eccesso, a fronte di benefici minimi in termini di riduzione della mortalità specifica per il tumore, come riassumono le linee guida dell’AIOM. Per questo oggi il dosaggio del PSA tende a essere raccomandato sulla base del rischio individuale e dell’aspettativa di vita dei pazienti, fattori che modificano il rapporto tra rischio e beneficio derivante da una diagnosi di tumore. Il test è generalmente consigliato in presenza di fattori di rischio, come la familiarità o l’etnia, e sconsigliato come controllo di routine in pazienti asintomatici, specialmente se di età inferiore ai 50 o sopra ai 75.
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